Il termine digiuno indica una condizione di privazione degli alimenti; tale privazione può essere volontaria oppure imposta; può per esempio trattarsi di una scelta dettata da motivazioni alimentari, da una prescrizione medica (alcuni esami diagnostici richiedono, per esempio, un periodo più o meno prolungato di digiuno), da un precetto religioso (tutte le principali religioni lo prevedono, seppur per motivazioni diverse, il privarsi del cibo in determinate circostanze o ricorrenze), da una motivazione politica (in questo caso l’astensione dal nutrimento rappresenta in genere una forma di protesta) o filosofica (ne è un esempio il digiuno praticato dai monaci buddisti).
Di norma, anche se forse in modo improprio, con il termine digiuno si fa riferimento all’astensione dai cibi solidi, anche se, in senso stretto, si dovrebbe far riferimento all’astensione totale di cibo e di acqua. Al di là della questione terminologica, va precisato che c’è molta differenza fra un digiuno che preveda comunque l’assunzione di acqua e un digiuno totale; nel primo caso, un soggetto sano può sopravvivere 25-30 giorni; nel secondo caso i giorni di sopravvivenza sarebbero drasticamente ridotti. Ovviamente sul periodo di sopravvivenza incidono vari fattori (l’età, il peso, il clima, la forza di volontà ecc.).
Effetti metabolici del digiuno
Come vedremo, a seconda della sua durata, il digiuno ha ripercussioni diverse sull’organismo.
Va premesso un digiuno di poche ore è da considerarsi fisiologico; è infatti usuale, nella vita di qualsiasi soggetto sano, non assumere cibo per alcune ore (generalmente 4 o 5 o di più se non si fa alcun tipo di spuntino) dopo uno dei pasti principali; è ovviamente fisiologico anche il digiuno conseguente al normale riposo notturno.
Essenzialmente, il digiuno può essere distinto a seconda della sua durata; generalmente si considerano quattro fasi: fase del post-assorbimento, digiuno di breve durata, digiuno di media durata, digiuno di lunga durata.
La fase del post-assorbimento è quella che insorge una volta che i cibi che sono stati assunti nel pasto sono stati del tutto assorbiti dall’intestino tenue (per inciso: il secondo tratto dell’intestino tenue viene detto “digiuno”). La fase in questione ha una durata di circa 4-5 ore dopodiché, generalmente, si assume altro cibo interrompendo conseguentemente lo stato di digiuno. Durante la fase del post-assorbimento si ha, nel soggetto normale, un calo dei livelli di glucosio nel sangue (abbassamento della glicemia); l’organismo “reagisce” a questa riduzione con un processo noto come glicogenolisi epatica (degradazione di molecole di glicogeno fino a ottenere la formazione di glucosio), necessario sia per il mantenimento di adeguati livelli glicemici sia per rifornire di glucosio gli altri tessuti dell’organismo.
Nel digiuno di breve durata, quantificabile in un giorno di astensione dai cibi, le esigenze metaboliche dell’organismo sono sostenute, oltre che dalla glicogenolisi epatica, anche dall’ossidazione dei trigliceridi; il glicogeno contenuto nel fegato, infatti, è piuttosto limitato ed è quindi necessario che l’organismo ricorra, al fine di risparmiare glucosio (destinato soprattutto al cervello e ai globuli rossi), agli acidi grassi.
In seguito l’organismo ricorre a un processo metabolico noto come gluconeogenesi; attraverso questo processo il glucosio viene sintetizzato utilizzando precursori non glicidici (aminoacidi, glicerolo, acido lattico, piruvato ecc.).
La gluconeogenesi (anche neoglucogenesi) ha come scopo primario quello di contribuire al mantenimento costante della concentrazione ematica di glucosio.
Oltrepassate le 24 ore di digiuno, si passa nella fase del digiuno di media durata; durante questa fase si assiste a un’accentuazione piuttosto marcata ad andamento progressivo del processo di gluconeogenesi. Gli aminoacidi che vengono sfruttati per questo processo sono quelli derivanti dalla degradazione delle proteine contenute nei tessuti muscolari (nell’organismo umano non sono presenti depositi di proteine utilizzabili per fini energetici); di fatto, si assiste a quella che un po’ pittorescamente viene definita come “cannibalizzazione dei muscoli” con conseguente diminuzione della massa muscolare. Inevitabile la comparsa di sintomi come debolezza, stanchezza e apatia.
Il processo di gluconeogenesi tende, con il tempo, a perdere efficacia, tanto che il rifornimento di glucosio al cervello è sottodimensionato; diventa quindi necessario il ricorso ai corpi chetonici (acetone, aceto acetato e 3-Β-idrossi-butirrato); questi derivano dal metabolismo dei lipidi; in assenza di zuccheri, infatti, i lipidi non possono essere utilizzati ai fini energetici e l’organismo è costretti a trasformarli in corpi chetonici, sostanze che hanno determinate caratteristiche che li rendono simili agli zuccheri, in primis la loro notevole velocità di immissione e la rapidità di utilizzo.
La chetosi ha come effetto positivo l’allungamento della sopravvivenza dell’organismo, ma gli “effetti collaterali” non mancano, basti citare il considerevole incremento dell’acidità ematica e il superlavoro cui vengono sottoposti due importanti organi come reni e fegato per smaltire i corpi chetonici in eccesso.
Man mano che il digiuno perdura, i vari tessuti, per risparmiare il più possibile il glucosio, sono sempre costretti a ricorrere sempre più all’ossidazione lipidica.
Trascorso il ventiquattresimo giorno di digiuno si passa all’ultima fase, quella del digiuno prolungato; senza un intervento il soggetto è destinato a morire nel giro di brevissimo tempo. L’organismo, infatti, ha sfruttato tutte le risorse che il fegato e il sangue gli mettevano a disposizione e il decesso arriva come conseguenza di difficoltà respiratorie, disidratazione e abbattimento delle difese immunitarie. Come detto, un essere umano può sopravvivere a un mese circa di digiuno, anche se sono stati documentati casi di digiuni più lunghi.
Digiuno terapeutico (intermittente)
Considerando quanto riportato nei paragrafi precedenti è possibile fare alcune considerazioni sulla questione del digiuno terapeutico, cioè di quel digiuno che, usato per periodi e con frequenze opportune (per questo è detto anche intermittente), può migliorare la nostra salute.
Se, in passato, il digiuno era legato soprattutto a scelte di carattere mistico-religioso, oggi è visto innanzitutto come una forma di purificazione fisica, un’eliminazione delle tossine che dovrebbero aver inquinato il nostro corpo a seguito di un regime alimentare sbagliato. A prescindere dal fatto che spesso chi parla di digiuno riesce a infilare una serie impressionante di castronerie scientifiche mentre spiega i presunti benefici dell’operazione, è possibile mostrare come il digiuno, anche saltuario, sia effettivamente dannoso.
Infatti, durante una riduzione calorica, l’organismo può attuare un processo di adattamento o di accomodamento. Con l’adattamento si ha un abbassamento del metabolismo basale in modo da preservare le risorse, mentre con l’accomodamento le risorse sono utilizzate per sopperire al mancato apporto di nutrienti. In genere l’organismo tende a utilizzare processi di adattamento che non sono distruttivi (per esempio non è intaccata la massa magra).
Con il digiuno è molto probabile che intervengano processi di accomodamento, soprattutto se è protratto. Infatti la gluconeogenesi (vale a dire l’impiego dei lipidi e delle proteine per ottenere il glucosio necessario per mantenere i valori glicemici nella norma; in un sedentario le scorte di glicogeno vengono infatti esaurite in meno di 24 ore) già dopo qualche giorno comincia a produrre effetti negativi: la massa magra viene intaccata per convertire le proteine in energia (con conseguente sovraccarico epatico) e allo stesso scopo sono utilizzati anche i grassi (con effetto dimagrante) con conseguente accumulo di scorie chetoniche.
In sostanza il digiuno terapeutico anziché purificare l’organismo lo intossica!

A seconda della sua durata, il digiuno ha ripercussioni diverse sull’organismo
E digiunare un giorno?
Anche il digiuno di un giorno non è positivo. Infatti un sedentario (per uno sportivo sarebbe dura digiunare e allenarsi, vedi esempio sottostante) che ha un fabbisogno calorico di 1.800-1.900 calorie ne spende circa 1.400 per il metabolismo basale. Ciò vuol dire che per vivere, l’organismo, che si digiuni o no, produce scorie, la depurazione non dipende dal digiuno, ma dalla capacità di eliminare queste scorie; se questa capacità viene meno o semplicemente diminuisce, il digiuno non può certo ripristinarla.
Quindi ci si deve chiedere quando il digiuno inizia a far male, consapevoli che bene non fa mai. La risposta è nella quantità delle scorie che il processo di gluconeogenesi produce, smontando i muscoli e bruciando grassi in presenza di scarse o scarsissime riserve di carboidrati per avere l’energia necessaria. Poiché la gluconeogenesi serve per sopperire alla mancanza di energia, i danni del digiuno dipendono dall’energia spesa dal soggetto: un conto è digiunare stando a letto e un conto è digiunare facendo una vita attiva. Anche il digiuno di un giorno può far male.
Un aneddoto: un ragazzo ha digiunato per circa 36 ore a causa di una leggera sindrome influenzale che aveva colpito il tratto gastrointestinale. Rimessosi dal malanno, ha pensato bene di giocare un’estenuante partita a pallone. Risultato: strappo agli adduttori. Ovviamente non esiste controprova, ma è molto probabile che il catabolismo proteico innescato dal digiuno e lo sforzo fisico abbiano provocato l’infortunio.
Il digiuno secondo la medicina alternativa
Secondo alcune correnti igieniste, digiunare avrebbe anche una funzione terapeutica (come abbiamo visto, lo definiscono appunto digiuno terapeutico) e addirittura guarirebbe da molte malattie, tumori compresi, grazie a un processo di autolisi cellulare che provocherebbe un rinnovamento dei tessuti.
Questa teoria non è che l’esempio di come l’ignoranza delle basi della fisiologia umana tenda ad avvalorare teorie fantasiose, puramente filosofiche, completamente staccate dalla realtà. Inutile commentare, posso solo citare il caso di un mio compagno di squadra che, dopo aver abbracciato da anni, teorie alternative, veganismo ecc. è stato colpito a poco più di 50 anni da un tumore all’intestino (patologia oggi curabile con un intervento convenzionale tempestivo); ha rifiutato tutte le cure e, fino all’ultimo, ha creduto che il digiuno potesse salvarlo. Onore alla coerenza, ma forse i figli e la moglie avrebbero preferito che fosse ancora vivo.
Pensare che il digiuno possa depurare è tipico di mentalità anoressiche che comunque ritengono che il cibo o alcuni cibi possano fare molto male. Va da sé che in un soggetto sano non si comprende perché debbano accumularsi scorie (quali? Dove? In che quantità?) che sarebbero eliminate con il digiuno. Premesso che è il digiuno che intossica l’organismo, se un soggetto sano non è in equilibrio con la propria alimentazione (cioè non riesce naturalmente a eliminare le scorie che produce) significa semplicemente che mangia male.